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L’uccisione del maiale: un antico rito della tradizione contadina

Un giorno di grande festa che vede riuniti parenti e amici attorno alla stessa tavola

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Tra le tradizioni presenti in Abruzzo quella dell’uccisione del maiale è, senz’altro, tra le più antiche della nostra regione. Diverse sono le testimonianze che ci confermano che questo rituale affonda le proprie radici tra la fine dell’ Ottocento e l’inizio del Novecento, considerato da tutti come un vero e proprio momento di “festa” ed un’occasione di aggregazione e socializzazione per l’intera famiglia, i compari, gli amici e spesso anche i vicini di casa, invitati per consumare il pranzo e per aiutare nella preparazione dei salumi.

Secondo altre fonti, il rituale vede le prime luci, addirittura, con le popolazioni italiche durante le feste dei “ Saturnalia” che si svolgevano nell’ultima decade di dicembre, a conclusione dell’anno agrario,  in cui venivano celebrati una serie di riti sacri, necessari per la prosperità dell’anno nuovo, tra cui quello del“Sol Invictus” ( l’equivalente del Natale) che prevedeva il sacrificio del suino considerato portatore di prosperità e benessere in onore di Saturno, protettore della semina e della fertilità della terra.

Nella cultura e nell’economia contadina, il maiale è da sempre simbolo di abbondanza; dalla popolazione contadina abruzzese, infatti, era considerato quasi al pari di una divinità e dalla buona riuscita delle sue carni dipendeva la sopravvivenza dell’intera comunità. Il maiale, dunque, è stato per secoli la dispensa di molte famiglie; una garanzia di grasso e di proteine. Infatti, fino a qualche decennio fa, le famiglie di coltivatori vivevano in uno stato di sostanziale povertà in cui la carne era considerata un alimento per ricchi. Pertanto, la loro era una dieta pressoché vegetariana, fatta,cioè, di legumi, ortaggi, pane e pasta fatti in casa. Se vi era possibilità, la carne era consumata esclusivamente durante le ricorrenze e i giorni di festa.

Famoso è il detto che recita: “del maiale non si butta via niente”, parole che testimoniano la miseria che regnava sovrana in quegli anni; venivano conservati persino il sangue, per realizzare un dolce molto in voga nelle campagne chiamato Sanguinaccio, le budella, le orecchie e i piedi. La carne di maiale era rinomino di sostentamento, dato che le altre carni, come quella di vitello, erano destinate al commercio e non al consumo diretto.

Tornando indietro nel tempo,infatti, le famiglie benestanti che avevano la possibilità di acquistare un maialino, in genere durante le fiere, lo affidavano ad un contadino che lo sistemava all’interno del porcile, dove spesso coabitava con gli altri animali della stalla. Durante il giorno veniva nutrito con frutti raccolti in campagna, bucce, verdure, erbe e tanto altro, mentre la sera si preparava la “tina”, una brodaglia fatta con crusca, acqua calda, patate lesse e avanzi alimentari. Con l’avvicinarsi del momento del sacrificio, la qualità dell’alimentazione del maiale migliorava per poter garantire un rapido aumento di peso; gli veniva servito, spesso, un brodo fatto di cereali, legumi e granturco. Durante l’autunno,invece, la sua dieta era integrata da ghiande che influivano,notevolmente, sulla bontà e sul sapore della carne. Cosi facendo, non di rado, i maiali superavano i due quintali e molto gradito era,anche, il suo lardo, necessario per il condimento dei cibi durante tutto l’anno.

Al momento della sua uccisione, la quale solitamente avveniva tra dicembre e gennaio, mesi che coincidevano con il periodo  più freddo dell’anno e con la piena maturazione del maiale, la tecnica prevedeva e prevede ancora, che l’animale fosse sezionato in due parti uguali: una metà andava al padrone e l’altra al contadino. In seguito, quando l’epoca dei padroni terminò, i contadini iniziarono ad allevare autonomamente i maiali e a trasformare ciò che per loro era, semplicemente, un lavoro, in un vero e proprio “rito”gioioso che coinvolgeva tutti i loro cari, un attesissimo appuntamento annuale per tutta la famiglia.

Qualche giorno prima del sacrificio iniziavano i preparativi: fondamentale era coinvolgere tutti, senza rischiare dimenticanze che sarebbero,sicuramente, sfociate in vere e proprie offese; Uncini, coltelli e funi erano già pronti per poter essere utilizzati.

Il rito dell’uccisione e della macellazione del maiale si protrae per tutta la giornata. Solitamente si tratta del 17 gennaio, giorno della festività di Sant’Antonio Abate, protettore degli animali, in cui, ancora oggi, in molte comunità abruzzesi si procede alla benedizione del maiale e di altri animali domestici. Condizione necessaria non era soltanto il freddo ma anche la cosiddetta “luna calante”, poiché, secondo le credenze popolari, indispensabile affinché la carne non “andasse a male”. Fuori le donne più anziane alimentavano il fuoco sotto l’enorme caldaio di rame, “lu cuttore”, che avrebbe fornito acqua bollente per la pulitura del maiale.

Per via delle rigide temperature, spesso c’era la neve, ma il freddo non veniva affatto percepito; i piccoli si alzavano di primo mattino per giocare intorno al fuoco, sotto gli occhi vigili di mamme e nonne.

Si iniziava appendendo l’animale ad un ramo dell’albero più grande e più vicino alla casa; a questo punto, l’uomo con l’ausilio di un coltello e compiendo gesti rapidi e precisi, prima infilava un uncino sotto il muso del maiale e poi velocemente gli incideva, con il coltello, la gola fino a recidere la giugulare. Dopo lo scannamento, il primo sangue viene raccolto dalla donna più anziana, all’interno del caldaio, e mescolato velocemente insieme a latte e ad una piccola quantità di acqua, per evitarne il coagulamento. Nel caldaio le donne, sempre girando, mettono abbondante zucchero speziato con cannella, scorze di limone e di arance, mosto cotto, mandorle tritate e abbrustolite, cacao. Il tutto viene, poi, riposto in recipienti di terracotta o dentro le budella ben pulite dello stesso maiale dando vita al Sanguinaccio. Messo poi a seccare, può essere gustato nel mese di maggio, tagliato a fette o spalmato sul pane per deliziose colazioni e merende.

Tutti, grandi e piccini, assistevano con assoluta normalità a questo tradizionale rito, che se guardato in un’ottica moderna risulterebbe eccessivamente cruento.

Successivamente si procedeva alla spellatura, buttando addosso al maiale acqua bollente e raschiandolo con i coltelli; una volta lavato con canovacci imbevuti di acqua calda e aceto, si infilavano i tendini delle zampe posteriori, appositamente scoperti, alle estremità di un legno a forma di “V” che, legato con funi all’apice, veniva fissato al soffitto sollevando il maiale e mantenendolo a testa in giù con le zampe divaricate; una posizione, questa, che ne facilitava la pulizia ed il lavaggio. Terminato questo passaggio, il maiale si tagliava a metà partendo dall’alto grazie all’utilizzo di un coltello molto affilato. Una volta aperto il suino, si infilavano le mani all’interno della carcassa e con un certo sforzo si tiravano fuori le interiora; sarebbero state tutte pulite dalle donne e utilizzate per gli insaccati. Quindi, si asportavano pezzi di carne da cuocere per il pranzo di quella giornata di festa. A tal proposito, la prima specialità del giorno era l’impareggiabile “ ciffe e ciaffe”, pezzettini di carne di scarto e ossi che venivano soffritti in padella con l’aggiunta di olio d’oliva, aglio e peperone.

Per quanto riguarda i metodi di conservazione delle carni di maiale, le fasi della salatura, del condimento e dell’asciugatura degli insaccati,  non può non essere lodata un’altra prelibatezza, orgoglio abruzzese: la ventricina.

Viene presa la carne dei lombi, mista a pezzi di grasso accuratamente scelti; Questa viene tagliata a pezzetti, salata ed insaporita con peperone dolce e peperoncino piccante. Tutta la massa, ben lavorata da mani esperte, viene tenuta, per una notte, ad insaporire in grossi tegami di creta, in un luogo fresco ed asciutto. Il giorno successivo viene insaccato a mano nel budello della vescica pulito, lavato e “curato” cioè,  tenuto in acqua con bucce di arancio e foglie di alloro, asciugato e cucito in diversi sacchetti. Una volta insaccata e trascorsi circa quaranta -cinquanta giorni, si esegue una spalmatura leggera, esterna all’insaccato, con lo strutto che veniva utilizzato per limitare il calo di peso del prodotto nel periodo successivo.

A macellazione conclusa, parenti, compari e vicini, che hanno partecipato all’impegnativo rito, si siedono al banchetto, mangiano, cantano, ballano e brindano all’abbondanza delle provviste offerte dal maiale.

Benché l’allevamento dei suini nelle campagne venne praticato fino agli anni Cinquanta o Sessanta del secolo scorso dato che, successivamente, si passò agli allevamenti industriali, ancora oggi ci sono famiglie che mantengono l’usanza di allevare il maiale nei propri terreni e di ucciderlo, secondo i metodi tradizionali, con l’obiettivo di tenere una parte per loro e l’altra da destinare alla vendita; famiglie che amano e desiderano sapere cosa mangiare e lo fanno con molta passione, cura per i dettagli e gesti sapienti che solo la tradizione è in grado di trasmettere e conservare.

È questa, dunque, una tradizione che va difesa e tutelata; innanzitutto per la genuinità della carne ma anche per vivere un momento di condivisione unico che da modo di “staccare” dalla frenesia della quotidianità per riunire attorno alla stessa tavola parenti e amici. È importante che questa, come altre usanze non vadano semplicemente ricordate e raccontate, bensì vissute perché, come affermava un’illustre studioso francese: “la tradizione non consiste nel conservare le ceneri ma nel mantenere viva la fiamma”.  

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