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Nausica Manzi tra le vincitrici del Premio artistico-letterario “Sul fondo” - Per non dimenticare la Shoah

Indetto dalle associazioni Mystica Calabria e Khoreia 2000, primo posto per il suo racconto “Geremia e il bottone ribelle”

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Era il 27 gennaio di 78 anni fa quando furono aperti i cancelli di uno dei luoghi di morte per eccellenza, “buco” nero in cui andarono in fumo i corpi, le vite, i sogni, i sorrisi, le speranze di tanti e tanti Ebrei ma anche Rom, Sinti, persone con disabilità, omosessuali, oppositori politici.

Definire con precisione il numero delle vittime dell’Olocausto, cioè il genocidio “storicamente meglio e più documentato, come riporta in apertura il sito https://encyclopedia.ushmm.org/content/it/article/documenting-numbers-of-victims-of-the-holocaust-and-nazi-persecution, perpetrato ad opera del Nazismo tra il 1938 e il 1945, è praticamente impossibile, considerando che “non esiste alcun documento che riporti con esattezza il numero delle vittime”.

Ma se non conosciamo con esattezza i numeri, sappiamo tutti cosa hanno passato e vissuto coloro che vi hanno preso parte. Lo sappiamo, e continuiamo a ricordarlo per non dimenticare e per averne, conservarne e tramandarne memoria, con la Giornata della Memoria che si celebra oggi, data scelta in ricordo del giorno in cui l’Armata Rossa aprì quei cancelli di morte e distruzione e liberò il campo di concentramento di Auschwitz.

E il peso di questa Giornata, che si fa sentire sin dai giorni che ci avvicinano ad essa, almeno personalmente, diventa un macigno che toglie il respiro e che si fa sempre più pesante se proviamo un minimo a metterci nei panni di quelle persone e a immaginare cosa accadrebbe se dovesse ripresentarsi la possibilità di un nuovo genocidio.

Per conservare la Memoria è necessario parlare, spiegare e raccontare la Shoah per quello che è stato realmente, cosa, ovviamente, non semplice quando abbiamo davanti ragazzi e bambini che però necessariamente, seppur con gradualità, sensibilità e attenzione alla loro età, devono sapere e conoscere, perché è importante guardare al futuro, guardare avanti, voltandoci però sempre al passato, per evitare che siano compiuti gli stessi errori.

In questa missione, un ruolo fondamentale lo rivestono senza dubbio i libri, la lettura e di conseguenza anche la scrittura. Proprio di questo, di Memoria, di Speranza, di fragilità, di disperazione, di legami, di “ricamo”, di anime e di molto altro, abbiamo parlato qualche giorno fa con la scrittrice originaria di Montedorisio, Nausica Manzi, che abbiamo incontrato in diverse occasioni per parlare della sua “arte”, appunto la scrittura.

L’abbiamo incontrata a pochi giorni di distanza dalla notizia che la vede tra i vincitori della VII Edizione del Premio artistico-letterario “Sul fondo” - Per non dimenticare la Shoah, indetto dalle Associazioni Mystica Calabria e Khoreia 2000.

Geremia e il bottone ribelle è il titolo del racconto che la Giuriapresieduta dalla prof.ssa Mariella Rosito e composta dalla prof.ssa Ippolita Gallo, dalla dott.ssa Angela Micieli, dalla dott.ssa Rosy Parrotta, dalla prof.ssa Ines Ferrante e da Francesco Propato (fotografo), ha decretato come primo classificato nella Sezione Racconti. E Venerdì 27 gennaio, Nausica parteciperà personalmente alla Cerimonia di Premiazione che si svolgerà, a partire dalle ore 17:00, presso il Teatro della Chimera a Castrovillari.

Buon pomeriggio, Nausica e grazie per la tua consueta disponibilità a condividere con noi “pezzi” di te e della tua arte. E soprattutto congratulazioni per questo riconoscimento ricevuto di cui hai dato notizia attraverso la tua pagina Facebook alcuni giorni fa. Hai scritto di essere “Immensamente felice” e chi conosce te e la tua scrittura condivide pienamente il tuo entusiasmo. Raccontaci, quindi, di questo concorso a cui hai partecipato, come ne sei venuta a conoscenza, conoscevi già le due Associazioni promotrici del Premio Letterario?

Buon pomeriggio! È sempre un piacere per me e grazie a voi.

Sono venuta a conoscenza del Premio letterario attraverso Internet, sia spigolando tra le pagine dedicate ai concorsi letterari, a cui partecipo da diversi anni, sia seguendo l’Associazione Mystica Calabria che si occupa a livello storico del territorio calabrese e che è particolarmente dedita al tema della Shoah. Non a caso, infatti, questa Associazione organizza ogni anno, dal 23 al 27 gennaio, la Settimana della Memoria. In questa cornice si terrà anche la Cerimonia di Premiazione a cui parteciperò.

Cosa ti ha spinto a partecipare al concorso, oltre ovviamente alla tua passione per la scrittura?

Il tema della Shoah mi ha sempre toccata, sin da quando frequentavo il Liceo, e anche successivamente durante gli studi universitari in filosofia, quando ho avuto occasione di approfondire la conoscenza di filosofi e autori ebrei, come Hannah Arendt o Emmanuel Levinas. Pensate che quest’ultimo fa nascere proprio dal tema del Lager quello della Carezza, tematica a cui sono particolarmente legata e che ho avuto modo  di approfondire nel mio saggio “Custode di esistenza” (N.d.R. edito da Albatros Il Filo nel 2020).

Credo molto nella validità di concorsi come questo a cui ho partecipato perché è un modo che ci permette di conservare la Memoria, cosa che è necessario ricordare non solo in questa giornata ma sempre, come quando parliamo di violenza di genere e/o sulle donne, di bullismo ecc.. 

Nel tuo post pubblicato su Facebook il 15 gennaio scorso hai scritto di essere “Immensamente felice”. Quali sono state le tue emozioni e gli stati d’animo quando hai scoperto di essere tra i vincitori?

Tutto è successo molto velocemente: mi è arrivata una e-mail in cui era scritto che il mio racconto Geremia e il bottone ribelle si era classificato al primo posto della Sezione Racconti.  Appena l’ho letta, mi sono fermata a pensare e, dopo aver realizzato, mi sono sentita davvero felice. È stato bello per la valenza che per me ha il tema trattato, un tema che, come ho detto, mi ha sempre toccato e che ho voluto affrontare facendo emergere il contrasto nell’orrore più pieno di quello che rappresenta.

Dicci, con poche parole, di cosa parla il racconto, che spero vivamente possa presto essere pubblicato.

“Geremia e il bottone ribelle” narra la storia di un uomo che è in una stanza, in un angolo che sembra salvarlo e proteggerlo un po' da tutto. Ha nelle mani una scatoletta che dentro conserva qualcosa di molto importante, che non viene subito rivelato ma con il quale Geremia ha una missione.

Pian piano si scoprirà che dentro quella scatola ci sono un ago e un filo, che lui è stato un sarto e che il luogo dove si trova è un luogo dove ha molti “clienti”, ci sono molti compagni con lui, compagni che indossano divise particolari che si riveleranno essere dei pigiami.

Siamo in un lager, un posto che ho immaginato immerso nel freddo della Polonia, e Geremia è lì che prova a ricucire questi pigiami che si strappano. Ma in realtà lui vuole ricucire altro, vuole ricucire le esistenze dei compagni per sopravvivere a quella crudeltà, a quel mattatoio dell’umanità e ricostruire anche la sua di esistenza.

"Geremia e il bottone ribelle" è la storia di un sarto che troverà poi un bottone che lo raggiungerà, e questo bottone apparterrà a un soldato tedesco. E Sarto e Soldato insieme, magari, poi cambieranno le cose, con un cenno di speranza a un futuro possibile che tutti noi possiamo creare.

Come è nata in te questa storia e come ha preso vita il personaggio di Geremia, il sarto “faro di luce di salvezza”, come lo hai definito nel testo?

Mi capita sempre di scrivere in maniera “assurda”. Ho scritto questo racconto di mattina prestissimo, mentre facevo colazione.

Ho immaginato un ragazzo adolescente che sente per la prima volta la parola “Shoah” e si chiede cosa significhi. Allora mi sono messa alla ricerca di un modo per pensare a questa parola in maniera diversa. Inoltre avevo in mente da giorni l’immagine del ricamo (mia madre mi diceva di voler fare lavori all’uncinetto). Quindi ho pensato di focalizzarmi sul personaggio del sarto ed è nato così Geremia. Un nome che mi piace e che - l’ho realizzato dopo - ha un’origine ebraica. Geremia è nato così, nell’angolo della cucina di casa dove sono solita scrivere. E così come è nato nell’angolo in cui di solito scrivo, mi sono immaginata Geremia nel suo angolo, all’interno della camerata in cui vive. Sì, da quell’angolo è nato il personaggio di Geremia, come metafora del ricamo.

Spiegaci meglio questo concetto che rappresenta uno dei temi cardine di questa storia, uno dei punti di forza che, insieme al tema della speranza, permettono di vedere la luce nell’oscurità di una realtà come quella dei campi di sterminio.

Con la metafora del ricamo intendo dire che una persona, guardando al di sotto del telaio, vede solo nodi aggrovigliati e intrecci impossibili eppure sono quei nodi che fanno la bellezza e la meraviglia del ricamo che sta uscendo lì dall’altra parte. Per vederlo ha bisogno solo di un cambio di prospettiva: si parte dai nodi, dalla difficoltà per costruire e ricostruire meraviglia e bellezza.

E, invece, il soldato Franz?

Il soldato Franz è nato perché volevo che emergesse l’opposto di Geremia ma non così tanto. Volevo creare un contrasto-non contrasto. Volevo che si incontrassero due mondi diversi oltre che per provenienza, anche a livello di esistenza. Ma di quell’esistenza che alla fine si rende simile e si ritrova nella fragilità dell’uno come dell’altro.

Volevo che nella figura del soldato emergesse la disperazione intesa come speranza. Non vedo la disperazione come qualcosa di negativo ma come quel qualcosa che ti dilania sì ma che ti occorre. Perché credo che serva quel momento negativo per capire chi sei. In quel momento, il soldato con i guanti bucati e il bottone staccato, è disperato, così come lo è davanti a Geremia. È disperato ma davanti a lui c’è qualcuno con un ago pronto a riparare, a tessere, a curare, un ago che può essere interpretato come un sorriso, come uno sguardo che ti dice “Ok, proviamoci! Siamo divisi ma ci siamo, possiamo farlo, possiamo superarlo”.

Nella parte centrale del racconto viene narrato il momento dell’incontro tra Geremia e il soldato e man mano emergono due elementi che fanno come da tramite, da collegamento tra i due personaggi. Mi riferisco alla porta della camerata e al bottone: che ruolo hanno nella storia? 

La porta della camerata è un elemento importante del racconto: è da dietro la porta che Geremia percepisce la presenza del soldato, si scontra con la porta che è la sua debolezza.

In un primo momento, Geremia spia dalla porta il soldato perché vuole avvicinarsi a lui, alla sua debolezza.

Poi è qualcos’altro che gli viene incontro ed è rappresentato dal bottone, è come se fosse l’esistenza del soldato a cercarlo; la seconda volta infatti i due personaggi si troveranno faccia a faccia. 

In questo passaggio ho voluto immaginare anche il modo in cui chi legge ha di avvicinarsi alla tematica della Shoah, ho visto nel sarto una qualsiasi persona che si avvicina al tema, all’inizio in maniera distante e con paura e poi in maniera diversa.

Emerge potente in questo il tema della Speranza e penso che l’immagine del tessere e ritessere, del cucire per ricreare legami e vite strappate e spezzate prendendosene cura accentui ancora di più tale tematica. Ed effettivamente fa sì che l’oscurità dell’Olocausto venga come illuminata dalla luce che la speranza accende. Perché vedere che due mondi, due nazionalità, due esistenze diverse - ma ugualmente fragili - collaborano e si mettono insieme per ricucire qualcosa di rotto davvero fa sperare.

Mi piace ricordare, in merito a questo aspetto, la tua risposta a una mia domanda fatta in occasione dell’ultima intervista, dell’aprile scorso, quando ti chiedevo un parere sulla Guerra in Ucraina. Questa fu la tua risposta: “Io punto tanto sull’essere umano quindi anche con la mia scrittura, nel mio piccolo, provo a dare forma a un nuovo tipo di essere umano. Perché penso che nell’essere umano c’è quell’oltre che si può intravedere, anche nei momenti più devastanti come in questa situazione. E dove è l’essere umano? È nei dettagli, è dal momento negativo che bisogna risalire, e anche la scrittura è un modo di dire cose e far svegliare le coscienze. Io credo tanto e forse troppo nella speranza che l’esser umano si possa risvegliare, ma credo che in tutti anche nei malvagi, quando sono soli con la propria coscienza, avvenga una trasformazione. Il problema è dargli voce.

È così. Come ho detto, non vedo la disperazione come qualcosa di negativo ma come quel qualcosa che ti occorre per ripartire e capire, per rinascere.

Penso a quando si visita un campo di concentramento: è un’esperienza forte (N.d.R. che Nausica ha fatto), a cui bisogna prepararsi, perché lì ci sono cose a cui non pensi neanche ma sono cose che ti mettono davanti a quella estrema fragilità, a quella soluzione finale. Però tutto ti porta a capire che da lì, dai mucchi di scarpe, occhiali, vestiti, deve rinascere una fenicie che sta a noi aiutare a risorgere parlandone e trovando una speranza per il futuro. Per questo bisogna sempre parlare della Memoria, ricordare, tutto l’anno e non solo in questa Giornata.

Secondo te, come si può veicolare il messaggio insito nella Shoah a bambini e ragazzi? Ti è mai capitato di parlarne con loro?

Mi è capitato di parlarne con ragazzi della scuola secondaria in occasione di una visita che ho fatto a un mio professore del liceo e quando ero in Azione Cattolica.

Ho provato a raccontare la Shoah non dal punto di vista storico ma partendo dalle parole di chi ha vissuto l’esperienza, come ad esempio Primo Levi o Levinas, o anche da testimonianze più attuali: ho fatto leggere ai ragazzi le parole dirette per tornare a farle vivere affinché quello e qualsiasi altro orrore non avvenga mai più. Sono partita da lì per sottolineare come il futuro possa essere cambiato.

Perché la Shoah ti mette davanti all’errore e tocca a noi scegliere tra l’oblio e l’impegno per fare in modo che la memoria si conservi. 

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