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L’Asenelle d’ore.it - La nostra ... banda degli onesti

redazione
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Sulla scia del celebre film con Totò e Peppino, Antonella Iannucci ci racconta una storia paradossale con un tocco di realismo magico, che trasforma il nostro centro in un sobborgo della Little Italy

Dopo quelli pubblicati sulla rivista elettronica ww.apassoduomo.it, con questo episodio, inizia la seconda serie dei “Racconti casalesi”. N.d.A.

  Sempre a caccia di storie e personaggi casalesi, mi sono imbattuta per caso in quelle, un po’ gialle, un po’ nere, alla “Ventre di Casalbordino” (parafrasando il titolo di un celeberrimo romanzo di Victor Hugo e non certo alla I peccatori di Peyton Place,perché si sa che è meglio dire il peccato e non il peccatore), un po’grottesche, allaSoliti ignoti, raccontate, per interposta persona, da un integerrimo funzionario statale.

  Si trattava di uno di quelli che si erano guadagnati i galloni della laurea con tanti sacrifici ed avevano ricostruito moralmente questo Paese, formando tante generazioni di altri impiegati. Era rimasto coinvolto in queste storie per esperienza diretta o indiretta, oppure le aveva osservate, in parte, da dietro le tendine delle finestre, come nel bellissimo film di HitchcockLa finestra sul cortile, con un magnifico James Stewart, fotografo immobilizzato a letto, che indaga su un probabile omicidio avvenuto nel suo palazzo, grazie al teleobiettivo e alla fidanzata, impersonata da una stupenda Grace Kelly. 

  Così, film chiama film, questa prima storia ricorda tanto  il film del 1956 La banda degli onesti, diretto da Camillo  Mastrocinque e sceneggiato da Age & Scarpelli,  con uno strepitoso Totò nei panni di un portiere di un palazzo che diventa falsario, dopo aver “ereditato” cliché e carta filigranata da parte di un morente condomino impiegato della Zecca, coinvolgendo nell’avventura  l’altro condomino, tipografo spiantato, interpretato da Peppino De Filippo ed infine l’imbianchino, “pittore”, impersonato da Giacomo Furia, con il complesso delle reazioni di “mammà” e il massimo obiettivo nella vita di andare a Gerusalemme.

  E se nella “realtà romanzesca” di quel film (come recita una rubrica di un giornale satirico di quegli stessi anni) erano presenti tutti gli anticorpi morali (il figlio finanziere di Totò che torna in città e si va ad innamorare proprio della figlia del tipografo, e le reazioni di mammà per l’imbianchino), per cui alla fine la banda finisce la sua attività criminale di essere “tutt’al più una succursale della Banca d’Italia” (così rispondeva Totò alle perplessità di Peppino), con Totò che seppellisce in un campo la valigia con cliché e carta, restituendola quindi idealmente all’impiegato morto, in quella vera della nostra piccola realtà provinciale, l’attività criminale si è potuta dispiegare per oltre un decennio in tutte le sue articolazioni, per cui i componenti della banda hanno fatto fortuna, per sé e la propria famiglia. 

  Sì, perché in un paese che diventa magicamente un sobborgo della Little Italy degli anni ruggenti di gangsters da canzonette alla Fred Buscaglione, tanto di moda in quegli anni Cinquanta o, comunque, in quegli anni del “miracolo economico”la banda, composta da Tony, Lu risarelle, per quel certo sorrisetto da furbo che alcuni gli vedevano stampato in faccia, Joe, Lu mastre, per certe sue abilità artigianali, e Al, Lu sapute, la mente del gruppo, si mise così a stampare banconote, con materiale probabilmente fornito da qualcun’altro, quei bigliettoni rossi e grandi da diecimila lire (alla faccia di Pinocchio e del suo impossibile albero degli zecchini!), che facevano la differenza tra il benessere e la povertà (roba che mio nonno vedeva solo una volta l’anno, quando riusciva a vendere il raccolto!), che ti potevano permettere di comprare le scarpe “che fanno cic-ciac” (come recita una battuta di Peppino nel nostro film di riferimento) e che però Totò, in un’altra celeberrima scena, non riesce a smerciare dal tabaccaio, perché evidentemente non abituato a comprare cose più grandi di un certo modico valore.

  Queste banconote erano poi messe ad asciugare da Joe con estrema cura sul terrazzo della casa, una per una, munite ciascuna del relativo cchiapparelle, ovvero della relativa molletta per stendere i panni, sul filo adoperato dalla signora per stendere lenzuola e tovaglie fresche di bucato, magari dopo averci messo tanto olio di gomito, perché non c’erano ancora soldi per comprare la famosa lavabiancheria, tanto reclamizzata dalla pubblicità che usciva dai primi televisori, installati nei bar e nei cinema.

  Fu così che la signora di Joe e quelle degli altri componenti della banda poterono comprarsi detta lavabiancheria, tutti gli elettrodomestici che man mano uscivano sul mercato, a cominciare dall’ambìto televisore, la pelliccia di visone e soprattutto far studiare e dare un futuro ai propri, ancora numerosi figli (specialmente Al, che si era divertito parecchio con la sua bella).

  Ma non solo, perché Tony, più avanti negli anni, quando la pancetta cominciava a vedersi sotto le camicie firmate e le cravatte di pregio, pensò bene di ingannare il tempo e la noia che talvolta lo prendeva e di impiegare i bigliettoni che “magicamente” continuavano a fiorire, giocando a poker in un “circolo privato” (ma si può tranquillamente tradurre con “bisca clandestina”) che c’era in paese, in cui, certo tra le alterne fortune del gioco, per cui case, terreni, auto e peggio ancora …passavano spesso di mano, il patrimonio finiva comunque con l’incrementarsi.

Joe, invece, aprì, per sé e i suoi figli, un grande shop in un’altra strada del quartiere, e questo consentì ad uno dei suoi nipoti di comprarsi anche una bella villa, appartenuta in passato ad una notabile famiglia del territorio, dove organizzava feste e ricevimenti, da cui uscivano sempre più valorizzati l’enogastronomia e i nostri buoni piatti variegati e gustosi, come pallotte casce e ove, sagnettemaritite, bulugnamearipiene, tarallucce, e quant’altro, accompagnati dai nostri vini e spumanti, che attirano pure numerosi turisti. Il nostro amico, dunque, era molto soddisfatto di come gli era andata e credette, fino alla fine, di essere orgoglioso di quanto realizzato.

  Al, infine, non a caso era soprannominato Lu sapute: infatti seppe conservare un ruolo nascosto nell’attività criminale della banda e, non appena le acque si furono un po’calmate, si buttò a capofitto nella sua attività ufficiale di funzionario, spendendo con discrezione i bigliettoni sfornati negli anni, per dare anche un futuro ai figli che di volta in volta gli dava la sua bella, e riuscendoci pure bene, perché la maggior parte di questi ultimi conseguirono un titolo di studio ed impiantarono ciascuno una propria attività. Se la passò bene insomma, senza dare troppo nell’occhio, credendo così di averla fatta franca, fino alla fine della sua vita.

  In questo modo, successe che, con il passare degli anni, l’origine ambigua delle fortune dei componenti della banda e delle loro famiglie, venne pian piano dimenticata o almeno messa in un cassetto della memoria collettiva e che figli e nipoti dei nostri gangsters da canzonette divennero membri autorevoli e rispettati della comunità, ma tale marchio indelebile e infamante era sempre pronto a tornare a galla e ricomparire in primo piano, come il getto d’acqua in una risorgiva, soprattutto quando questi ultimi facevano qualcosa di sbagliato, pur senza che nessuno osasse dirlo loro direttamente in faccia, per quella ipocrisia caratteristica dei piccoli paesi, soprattutto quando a sbagliare erano i nipoti, che, purtroppo, conservavano quella prepotenza normale e tipica di una certa educazione ricevuta in famiglia.

 «Ma allora - qualcuno di voi potrebbe dirmi: - se nessuno tirava fuori l’origine illecita di quelle fortune e se i figli e nipoti erano ignari di ciò o comunque erano diventati autorevoli e rispettati, come va avanti e si conclude questa storia?»

  Rispondo, per prima cosa, come sia altamente improbabile che figli e nipoti non sapessero assolutamente niente della “pericolosa” attività di padri e nonni perché, se ciò può essere al limite vero nell’infanzia o nell’adolescenza (anzi è anche probabile che in quest’ultimo periodo qualcosa avessero origliato o visto di nascosto), da grandi è impossibile che non abbiano chiesto spiegazioni in proposito, soprattutto se avevano fatto il paio con quanto osservato anni prima.

  Secondo poi, purtroppo, di fronte all’ipocrisia e ai silenzi, uno scrittore non può far altro che lavorare di fantasia, ed immaginare, ad esempio, cosa sia successo quando uno dei nostri protagonisti, diciamo… uno come Tony, è passato, come si suol dire, a miglior vita, dopo tanto di funerali in pompa magna e sepoltura in tomba dai pretesi alti requisiti artistici, in realtà… praticamente kitsch.

  Allora immaginiamo che Tony abbia assistito da fantasma impotente (secondo una tradizione dei paesi ortodossi, un mese prima del Giudizio, che dunque potrebbe anche essere utilizzato dalla famiglia per fare tante elemosine a nome del defunto per mitigarlo), uno dei primi effetti della legge del contrappasso che fa pagare gli errori commessi in vita, se il nostro amico non abbia provveduto per tempo in proposito con un testamento, sia stato assistere alla lotta, più o meno accanita, più o meno cruenta, per l’eredità tra figli e nipoti.

  Questa lotta, che in verità sarebbe potuta accadere anche in caso di testamento, con relative lunghissime cause civili, non dovrebbe in ogni modo, essere durata molto, perché, come si dice, “lupo non mangia lupo” e quindi alla fine i figli di Tony si saranno, volenti o nolenti, spartiti i beni e le attività di famiglia. 

  E dopo questo mesetto da fantasma, fantastichiamo ancora che il nostro amico sia comparso davanti a San Pietro, la cui immagine gli compare come un ologramma, per entrare in Paradiso. A questo punto, un San Pietro che ci raffiguriamo molto tecnologicamente avanzato, passa uno scanner portatile, magari miniaturizzato nell’anello del Pescatore o, ancora meglio, inserito con un microchip direttamente nel dito, dalla cima dei capelli alla punta dei piedi di Tony e si accorge che la sua anima è molto “problematica” e non si può certo azzardare ad accoglierlo, come farebbe con qualsiasi altro poveraccio di questa terra, considerandolo, come recita il protocollo burocratico evangelico applicato normalmente, uno dei fratelli minori di Cristo, e allora che fa?... da bravo burocrate applica il protocollo indicato dalle circolari per questi casi, ossia avvia Tony ad un altro sportello della città celeste, una porta di servizio da cui si accede ad una specie di commissione medica, che deve valutare tutto ciò che è capitato nella vita del soggetto, per poi decidere se questi può essere avviato o meno al riposo eterno.

  Ora quindi, come capita in tutte le commissioni mediche di questa vita, succede che il carico di lavoro è talmente elevato, come l’orario di servizio talmente riposante, che quest’ultima se la prende molto, molto, molto comoda, con tempi letteralmente biblici; perciò il nostro Tony dovrà aspettare molto, molto, molto tempo prima di essere valutato. E di fronte a questa commissione pare non valgano nemmeno le tante “scorciatoie” a cui Tony era abituato in questa vita, con i bigliettoni di cui sappiamo, che consentono di accorciare i tempi, o di rivolgersi a qualche avvocato di grido, perché in Paradiso pare che gli avvocati debbano seguire le regole dello studio legale dell’Avvocata per eccellenza, ossia la Madonna, che prescrive di difendere i poveracci e di intervenire per loro nel Giudizio.

  Qualcuno di voi, allora, potrebbe dirmi, impaziente e irritato: «Ma, insomma, si può sapere o no come diavolo è andato a finire l’esame di Tony di fronte alla Commissione?!?»

«Mi dispiace, non posso risponderti, perché, prima di tutto… non frequento ancora molto quell’ambiente e, soprattutto… se lo facessi, mi metterei al posto della Commissione stessa e specialmente del suo Principale, cosa a cui non mi azzardo nemmeno, perché Loro sono molto, molto, molto più bravi di me nel soppesare l’anima umana e quindi decidere se… Tony vada in Paradiso o… in Purgatorio!!!»

 

 

 

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